Questa domanda è destinata a dominare la riflessione sulla riforma del mercato del lavoro italiano nei prossimi anni. Uno dei primi ad aver introdotto l’argomento nel nostro Paese è stato il giuslavorista Pietro Ichino che dopo la sconfitta di Matteo Renzi alle primarie del centrosinistra ha lasciato il Partito democratico per passare con Mario Monti.
La sua proposta sulla flexsecurity rappresentava uno dei pilastri del programma renziano: maggiore flessibilità in uscita, ovvero maggiore facilità di licenziamento per le aziende, in cambio di una maggiore tutela del lavoratore che perde la sua occupazione secondo un modello già applicato nei paesi del Nord Europa.
La flexsecurity punta ad irrobustire gli attuali ammortizzatori sociali e a coinvolgere le aziende nel supporto del lavoratore estromesso attraverso il finanziamento di appositi piani di formazione professionale. Questa ipotesi di riforma è stata fortemente contrastata dalle correnti del Partito democratico più vicine alla Cgil e questo ha spinto Ichino a lasciare il partito.
La tutela del posto di lavoro anziché del lavoratore è però anche la visione del Movimento 5 Stelle. Un convinto fautore di questo approccio è infatti Maurizio Gallegati, uno degli economisti più ascoltati da Beppe Grillo. La proposta sul reddito di cittadinanza, che di fatto non è altro che un sussidio di disoccupazione potenziato, non è che un aspetto della riforma all’insegna della flexsecurity che il comico genovese ha in mente.
Considerando la centralità che Matteo Renzi e il M5S avranno nella politica italiana nei prossimi anni è inevitabile che il dibattito tra tutela del lavoratore e difesa del posto del lavoro sarà sempre più centrale nella riflessione politica del Paese.
Un eventuale successo delle tesi di Ichino e Gallegati sarebbero un miglioramento o un peggioramento per i lavoratori? Rispondere non è facile per il semplice motivo che quello italiano è un mercato del lavoro a compartimenti stagni, dove coesistono forme di precariato incivili e forme di tutela assoluta. Alla base della piramide i giovani dei call center con contratti rinnovati su base mensile, al vertice i dipendenti pubblici garantiti a vita.
La tutela del lavoratore anziché del posto di lavoro potrebbe rappresentare una grande occasione di progresso e giustizia per l’Italia ma a patto che il principio venga applicato non solo al settore privato ma anche a quello pubblico. In termini pratici questo significa che la flexsecurity dovrebbe essere applicata anche ai dipendenti dello Stato a tutti i livelli.
I dipendenti degli enti inutili, quelli in eccesso nei vari rami della pubblica amministrazione dovrebbero essere licenziati esattamente come avviene per i dipendenti privati delle aziende in crisi. Non esiste nessuna giustificazione plausibile per la quale in Italia si accetta serenamente che un operaio del Sulcis possa perdere il suo lavoro mentre non si accetta che possa accadere lo stesso ad un dipendente pubblico in esubero di un ente locale inutile come la provincia di Carbonia-Iglesias.
Realisticamente bisogna poi aggiungere che la flexsecurity è credibile solamente se ci sono le risorse finanziarie sufficienti per potenziare gli ammortizzatori sociali. Queste somme non possono più arrivare da ulteriori incrementi delle tasse (ormai siamo oltre ogni limite ragionevole) ma solamente da una drastica riduzione dei costi di funzionamento dell’apparato statale.
Qualcuno potrebbe giustamente affermare che prima di toccare i poveri impiegati pubblici bisognerebbe colpire i mega stipendi dei boiardi di Stato, le pensioni d’oro e così via. Verissimo. Però è anche vero che un mercato del lavoro segmentato come quello italiano, dove milioni di giovani lavoratori vivono nella precarietà assoluta mentre altri godono delle maggiori tutele al mondo, pone un problema di profonda ingiustizia sociale che va corretto. E il principio della tutela del lavoratore, anziché del lavoro, applicato a tutti senza distinzione alcuna, potrebbe essere il grimaldello utile per scardinare l’attuale meccanismo di figli e figliastri e rendere questo Paese un pochino più equo e giusto.
Ovviamente tutto questo vale a due condizioni: (1) che il modello di flexsecurity italiano abbia le stesse ed identiche garanzie di quello esistente nei paesi nord europei (2) che si ponga mano alle agenzie di collocamento pubblico che oggi servono solo per dare occupazione a chi ci lavora e stipendi d’oro alla casta politica. In assenza di queste due condizioni le proposte di Ichino e Gallegati rappresenterebbero solamente un modo per facilitare i licenziamenti senza nessuna garanzia per i lavoratori e di conseguenza andrebbero rispedite al mittente senza se e senza ma.