In questo modo si va ad ingrandire il divario socio-economico con il resto dell’Italia, venendo a mancare uno dei fattori determinanti per la sua riduzione.
In questo contesto l’intervento delle autorità di politica economica deve essere teso, piuttosto che a frenare l’emigrazione, a rimuoverne le determinanti, che hanno come comune denominatore la quantità e la qualità della crescita economica nel Mezzogiorno.
Nel 2005 i trasferimenti di residenza tra comuni italiani sono stati oltre un milione e 300mila, il valore più elevato degli ultimi 15 anni. Le iscrizioni anagrafiche nel Centro-nord sono aumentate in tutto questo periodo, mentre sono diminuite nel Mezzogiorno.
Al Sud, in particolare, ‘è diminuita la già modesta mobilità di breve raggio, mentre rimane consistente il flusso migratorio unidirezionale verso le regioni più sviluppate del paese’.
Tra il 1990 e il 2005 – evidenzia la ricerca – sono emigrate verso il Centro-nord quasi 2 milioni di persone. L’intensità dell’emigrazione dal Mezzogiorno ‘non è stata costante: ha ripreso vigore nella seconda metà degli anni Novanta, interrompendo un trend decrescente che durava dai primi anni Settanta; all’inizio del decennio in corso il deflusso si è nuovamente attenuato’.
Negli ultimi anni, inoltre, è aumentato anche un altro tipo di mobilità che non è registrato dalle anagrafi, definita ‘pendolarismo di lungo raggio’. Sono quegli occupati che lavorano in una località lontana da quella di residenza, così lontana da rendere improbabile rientri frequenti nel tempo. Nel 2007, circa 140mila residenti nel Mezzogiorno (pari al 2,3% degli occupati dell’area) lavoravano al Centro-nord; sono spesso giovani che non hanno ancora raggiunto la stabilità dal punto di vista familiare né occupazionale.
L’emigrazione dal Sud è trainata dalle maggiori prospettive occupazionali presenti al Centro-nord. Il fenomeno quindi continua a essere un sintomo evidente del disagio, della mancanza di lavoro e del ritardo di sviluppo di quest’area rispetto alle altre’.
Alla ripresa dell’emigrazione nella seconda metà degli anni Novanta ‘potrebbe aver inoltre contribuito il contenimento dell’occupazione nel settore pubblico avviato dopo il 1992 e il restringimento del divario sui prezzi delle case tra le due aree del paese’.
In questo decennio, al contrario, ‘il forte aumento dei prezzi delle abitazioni al Centro-nord ha contribuito per circa un terzo al rallentamento dei flussi migratori’.
A questi fattori, ‘se ne sono aggiunti di nuovi, come i mutati rapporti di lavoro, che hanno cambiato il quadro di riferimento per l’analisi della mobilità del lavoro.
La diffusione dei lavori a tempo determinato, che ha coinvolto quasi unicamente i giovani nel loro ingresso nel mercato del lavoro, ha scoraggiato almeno nell’immediato i trasferimenti di residenza (che prefigurano spostamenti duraturi) e fatto aumentare un tipo di mobilità temporanea che sfugge ai registri delle anagrafi’.
Inoltre, per finire, l’afflusso di lavoratori stranieri è andato a ricoprire quei posti lavoro che magari prima venivano coperti dai lavoratori del sud Italia, in special modo se parliamo di lavoratori laureati