Da bambini alle elementari ci raccontavano di vivere in un posto in cui l’imprenditoria ce l’avevamo nel sangue. Ci insegnavano che la carta veniva prodotta da noi prima che nel resto d’Europa, che quella cartiera e il suo simbolico F4 erano la vetrina orgogliosa di una cittadina di provincia, poi ci raccontavano che eravamo tra i leader mondiali nella produzione di elettrodomestici e che in quei cappannoni che circondavano la periferia, proprio sotto le dolci colline dell’Appennino umbro-marchigiano, prendevano vita cappe aspiranti, frigoriferi, lavatrici, forni che venivano esportati nei più remoti angoli del globo terrestre. E noi lì ad immaginare come sarebbe stata la vita nelle case di russi e sudamericani per quei poveri elettrodomestici nostrani spediti così lontano. Quando arrivò il tempo del DOC e del DOP ci dissero che andavamo forti con le specialità di carne e che quel panino col salame fatto dalla carne potevamo sentirlo un pò più nostro. Di banca, dove nonni e padri mettevano i risparmi per comprarci biciclette e motorini, ce n’era una sola e si chiamava Cassa di Risparmio di Fabriano e ad un certo punto eravamo così importanti da poterci perfino permettere un’università pubblica fatta in casa (una sede distaccata con solo due corsi e qualche decine d’iscritti). A Fabriano c’era così tanto lavoro da poter ospitare una popolazione extracomunitaria che si aggira attorno al 12% della popolazione. Non solo si lavorava, ma non bastavamo noi. La Fabriano anni ’90 è un posto dove i bambini crescono felici e le uniche lamentele sono gli inevitabili malcontenti verso la Pubblica Amministrazione. Ubriachi dei nostri successi e fregiati del titolo della città del fare o di Svizzera marchigiana costruivamo villette per tutti e poi Suv e auto sportive come se piovesse. Crescevamo anche convinti di essere un popolo di cestisti con una gloriosa società che si barcamenava, da oltre trent’anni, nelle serie superiori. E noi presi a tirare a quel canestro nell’illusione d’imitare gli idoli locali che nonostante venissero da oltre oceano qui da noi stavano bene. Con l’avvento dei primi anni 2000 iniziano a diradarsi le illusioni e scoppiano le prime crisi, i licenziamenti, soffoca il commercio. Qualche giovane inizia a varcare la soglia degli Appennini per cammini lontani. Nel giro di pochi anni le cartiere non sono più roba nostra, la banca dopo notevoli difficoltà economiche dovuti a prestiti discutibili viene rilevata da Veneto Banca, scende l’immobiliare e cadono vittime le aziende di costruzioni, poi inizia il buco nero dell’elettrodomestico, la cassa integrazione diventa l’infelice stile di vita diffuso, chiudono le aziende dell’indotto, chiude l’università e chiude anche la squadra di basket. La disoccupazione vola oltre la doppia cifra. I più intraprendenti, ma si contano sulle dita di una mano, si buttano sul commercio o sull’intrattenimento ma poco possono tali settore con una crisi industriale di tale portata. I giovani si laureano altrove e non ritornano, chi resta fa la solita trafila di contrattini a termine se va bene o resta nell’eterna attesa di una inesperata ripresa. Il Comune inizia la tiritera solita del non abbiamo soldi, ma solo debiti e la città sembra più sporca, meno ordinata, di certo meno felice. La quadrilatero, infrastruttura stradale che doveva connetterci meglio con il resto del mondo, arranca da vent’anni. Gli inasprimenti fiscali fanno sparire gli investimenti dirottati all’estero dove il mercato del lavoro è più flessibile, i costi minori, la burocrazia meno invasiva. Il core business cittadino si dissolve e dopo decenni monotematici sull’elelttrodomestico la sensazione è che nessuno riesca più ad inventare qualcosa d’industrialmente interessante. I consumi calano, i negozi chiudono, le auto di lusso spariscono, qualcuno vende le ville o le case al mare. La città diviene l’emblema di una crisi lungi dal tramontare. Ripiegata su sè stessa, sconfitta da un mercato del lavoro fermo agli settanta, intrappolata da ammortizzatori sociali che non riqualificano il lavoratore nè lo spingono a mobilizzarsi, illusa come noi figli degli anni ’90 dalle idee peregrine incentrate sulla diffusione del benessere via mano pubblica, traditi dalla favola di poter avere l’università fatta in casa, abbandonati da sindacati vetusti capaci di chiedere solo più aiuti di stato, uccisi dalla politica che ha preferito mantenere artificialmente in vita con iniezioni di sussidi pubblici i colossi industriali di questa valle piuttosto che perseguire un percorso di riforme, immobilizzata da un capitalismo di relazione che dirotta il credito fuori dalla libertà del mercato, che lascia le fondazioni in mano alla politica e non da ultimo devastata da una tassazione sulle imprese superiore al 60% e soffocata da una burocrazia che crea prigioni di carta dalle quali non riescono ad esplodere le idee. Vent’anni e quello che era un ricco paesotto di provincia ha dimostrato tutte le debolezze tipiche proprio del provincialismo italiano. E ancora gli alfieri della conservazione con piglio da tribuni te li ritrovi a piazza del Comune sotto le logore bandiere dell’ideologia a chiedere ipocritamente aiuto allo Stato o a stigmatizzare chi ha portato altrove il proprio business d’affari come se la politica o il sindacato non avessero contribuito a questo scempio. Nel frattempo da quei tramonti dietro le colline è dura per tutti scorgere quel futuro pieno e ricco che le maestre c’insegnavano, fatto di produzione, tradizione, innovazione e lunghi percorsi di commercio. La delusione, la rabbia la senti nelle parole di quella generazione nutrita d’illusioni fin dalla nascita quando si faceva finta che tutto andasse bene quando vivevamo al di sopra delle nostre possibilità. Oggi arrivano messaggi su Facebook, mentre scrivo da Roma, da amici che sono appena partiti in Germania o scapperanno a breve in Australia perchè i contratti a termine non li rinnovano più e le opportunità per formarsi non sono più cosa di questa di terra, così come i sogni di un benessere duraturo e immutato. Buona fortuna.