La riforma Fornero ha profondamente modificato il mercato del lavoro. Per il rilancio dell’occupazione giovanile punta sull’apprendistato. Che però è per molti versi diverso dal modello che lo ha ispirato, l’apprendistato tedesco. Difficilmente, da solo potrà essere l’elemento di svolta.
La riforma del mercato del lavoro del ministro Fornero, entrata in vigore nel luglio del 2012, ha rilanciato il contratto di apprendistato come canale privilegiato d’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro.
La scommessa è stata motivata dai successi conseguiti dalla Germania negli ultimi anni in termini occupazionali. Nel 2012 la Germania aveva, infatti, il tasso più basso di disoccupazione per la fascia d’età 15-24 anni (8,1 per cento contro il 35,3 per cento dell’Italia) e uno dei più bassi per quella compresa fra i 25 e i 64 (5,2 per cento contro 9 per cento). Questi dati lusinghieri sono il frutto di vari elementi, ma è indubbio che il contratto di apprendistato, che coinvolge annualmente più di 1,5 milioni di persone, svolga un ruolo di contenimento della disoccupazione tra i più giovani.
Curare la patologia italiana con la medicina tedesca è parsa la strategia migliore. Tuttavia, le formule dell’apprendistato italiano e tedesco, pur presentando alcune somiglianze – comuni peraltro a molti paesi europei –, sono contraddistinte da marcate differenze, alla luce delle quali temiamo che l’attuale riforma da sola non basterà a rilanciare l’occupazione giovanile in Italia. (1)
I MODELLI DI APPRENDISTATO IN EUROPA
In tutti i principali paesi europei, l’apprendistato presenta tre caratteristiche fondamentali. In primo luogo, la finalità è l’acquisizione delle competenze necessarie all’esercizio di una professione mediante “trasferimento di sapere professionale” da un lavoratore esperto a un giovane. In secondo luogo, l’acquisizione delle competenze avviene mediante alternanza fra luoghi e modalità di apprendimento: la formazione erogata all’esterno dell’impresa (ad esempio scuole e istituti professionali) convive con quella fornita all’interno dell’azienda (alternanza di formazione on/off the job). Infine, l’apprendistato si configura come un vero e proprio contratto di lavoro. Ciò implica che l’apprendista percepisce un compenso e riceve una formazione calibrata sulle esigenze dell’azienda. Quest’ultima, dunque, alla fine di un articolato percorso di formazione pluriennale avrà, compatibilmente con le sue necessità, tutto l’interesse ad assumere l’apprendista.
DIFFERENZE TRA APPRENDISTATO TEDESCO E ITALIANO
In Germania vi è un solo tipo di apprendistato – alternanza scuola/lavoro – mentre in Italia ne esistono tre: (i) per la qualifica e per il diploma professionale, (ii) professionalizzante o contratto di mestiere e (iii) di alta formazione e ricerca. Il primo tipo è simile all’apprendistato tedesco, gli ultimi due presentano tre rilevanti differenze.
La prima riguarda l’età degli apprendisti. In Germania, infatti, l’apprendistato si rivolge a studentidi età non inferiore ai 15 anni dei licei e degli istituti professionali. In Italia, invece, l’età dell’apprendista al momento della stipulazione del contratto deve essere compresa tra 15 e 25 anni nell’apprendistato per qualifica e diploma professionale e tra 18 e 29 in quello professionalizzante e di alta formazione.
La seconda differenza riguarda il livello di istruzione dei lavoratori. L’apprendistato tedesco si rivolge agli studenti della scuola secondaria e preclude l’accesso all’università: una volta conclusa l’esperienza di formazione/lavoro, infatti, è possibile proseguire l’istruzione terziaria solo nelleFachhochschule (scuole professionali avanzate), ma non nelle università. (2) In Italia, invece, gli apprendistati professionalizzante e di alta formazione possono interessare anche laureati e dottorandi, soggetti caratterizzati da un elevato livello di istruzione.
La terza differenza, che consegue dalle prime due, riguarda il tipo di professionalità formate: in Germania interessa prevalentemente i lavori manuali mentre in Italia spazia da quelli manuali a quelli di concetto.
PUÒ RILANCIARE L’OCCUPAZIONE?
L’apprendistato è certamente utile se si vuole integrare in azienda la formazione teorica ricevuta da un giovane negli istituti scolastici, facendogli acquisire le professionalità necessarie in vista di una potenziale assunzione.
In Italia, l’istituto dell’apprendistato viene esteso, nella seconda e terza tipologia, anche a persone adulte e laureate, magari formate con percorsi scolastico-universitari, ma non qualificate professionalmente. L’azienda, però, dovrebbe integrare – e non sostituire – la preparazione ricevuta nell’ambito del sistema scolastico-universitario. In altre parole, la formazione on the job dovrebbe focalizzarsi sugli aspetti pratici che non è possibile apprendere in aula.
La necessità di ricorrere all’apprendistato per persone adulte, istruite ma non formate, è motivata anche dalla progressiva sparizione delle scuole professionali e dall’inadeguatezza del sistema universitario. Le imprese, pertanto, devono farsi carico non solo del cosiddetto addestramento professionale, ovvero di quelle abilità che consentono di mettere in pratica quanto appreso in via teorica nei percorsi di studio, ma nella predominanza dei casi devono costruire ex-novocompetenze e sviluppare capacità che i percorsi scolastici e universitari trascurano. La situazione è vieppiù aggravata dalla totale assenza di orientamento durante gli studi. Occorre, quindi, anche ripensare il sistema educativo e dell’orientamento, lasciando alle imprese il compito di integrare quelle competenze che consentono poi la piena qualifica professionale, anche ai fini contrattuali, dei giovani apprendisti.
Le economie avanzate, inoltre, da anni stanno orientando la produzione verso il terziario in cui il peso della manualità si sta progressivamente riducendo. Ciò induce a pensare che siano necessari (anche) altri strumenti di formazione e di raccordo tra sistema educativo e mondo del lavoro.
L’APPRENDISTATO ITALIANO TRA PASSATO, PRESENTE E FUTURO
È importante sottolineare che in Italia l’apprendistato ha scontato dieci anni di difficoltà applicative, finalmente superate con il Testo unico del 2011, e dovute, da un lato, alla frammentazione delle normative regionali, dall’altro alla formazione ulteriormente teorica prevista nei percorsi pubblici, spesso standardizzati e inutilmente appesantiti da molte ore in aula senza un concreto valore aggiunto.
La possibilità prevista ora per il cosiddetto apprendistato professionalizzante (il secondo tipo) di svolgere la formazione in azienda e il riconoscimento normativo ai contratti collettivi costituiscono elementi fondamentali per il rilancio dell’istituto.
Occorre intervenire anche per l’apprendistato di primo tipo che sconta gli stessi vecchi problemi: disciplina diversa per ogni Regione, numero eccessivo di ore di formazione (400 all’anno) e costi ancora troppo elevati. Tutti aspetti che scoraggiano le imprese.
La riforma Fornero, purtroppo, invece di ridurre i costi dei contratti standard, ha incrementato quelli dei contratti flessibili e dello stesso contratto di apprendistato. Per ottenere risultati occupazionali significativi occorre, da un lato, perseguire con tenacia la strada della semplificazione dell’apprendistato per tutte le tipologie e, dall’altro, affiancarvi l’impegno alla riduzione degli eccessivi oneri burocratici e fiscali che ancora gravano sul lavoro. Il tutto senza perdere di vista l’obiettivo di una profonda e condivisa riforma del sistema educativo.