Vessazioni, ordinarie ingiustizie, discriminazioni subdole e banali ma non per questo meno tremende. Ecco cosa succede alle lavoratrici da poco diventate madri, considerate dalle aziende “meno produttive”
Cristina, professione architetto, per nascondere la pancia che cresceva ha indossato per quasi sette mesi un corpetto contenitivo. E’ stata operata con un cesareo d’urgenza, sua figlia è nata con tre mesi d’anticipo ed è rimasta per sessanta giorni in terapia intensiva. Daniela, impiegata in un supermercato con la mansione di scarico merci, la sua gravidanza l’ha rivelata quasi subito. Per il suo capo però non ha fatto molta differenza: le ha detto che poteva comunque continuare a svolgere la maggior parte del lavoro “fisico” e si è mostrato infastidito all’idea di dover mettere in sicurezza l’ambiente di lavoro, secondo la legge. Quando ha avuto un aborto spontaneo, è stata trasferita in un altro negozio con conseguente degradamento delle mansioni e meno soldi in busta paga. Ad Alessia, donna manager, l’azienda ha “perdonato” il primo figlio. Quando però è rimasta incinta la seconda volta, al rientro al lavoro ha trovato la sua scrivania occupata da una collega più giovane e più disponibile agli straordinari notturni.
Non è un Paese per mamme, questo. E’ invece la fotografia di un’Italia dove dominano le vessazioni, le ordinarie ingiustizie, le discriminazioni subdole e banali ma non per questo meno tremende, che hanno come bersaglio le lavoratrici da poco diventati madri, considerate dalle aziende “meno produttive”.
Ogni hanno ci ritroviamoa ricevere segnalazioni e a raccogliere storie di donne vittime di mobbing al rientro dalla maternità o addirittura a gravidanza ancora in corso. Mentre il governo Renzi promette bonus bebè e incentivi alle neo famiglie ma sembra ignorare questi piccoli e grandi drammi che si consumano quotidianamente, in silenzio, negli uffici italiani. Fatta eccezione per qualche rara iniziativa, come quella annunciata poche settimane fa dal ministro della Salute Beatrice Lorenzin che ha incaricato gli ispettori ministeriali di avviare un’indagine sullo stato dei congedi di maternità, in particolar modo per le libere professioniste.
Mentre nelle aziende si continua a demansionare, isolare e provare psicologicamente le lavoratrici fino a provocarne le dimissioni. E neppure una legge severa come la 151/2001 riesce ad arginare abusi e ingiustizie di genere.
I dati parlano chiaro: negli ultimi cinque anni in Italia i casi di mobbing da maternità sono aumentati del 30 per cento. Secondo le ultime stime dell’Osservatorio Nazionale Mobbing solo negli ultimi due anni sono state licenziate o costrette a dimettersi 800mila donne. Almeno350mila sono quelle discriminate per via della maternità o per aver avanzato richieste per conciliare il lavoro con la vita familiare.
Sempre secondo l’Osservatorio, 4 madri su 10 vengono costrette a dare le dimissioni per effetto di “mobbing post partum”. Con un’incidenza superiore nelle regioni del Sud (21%), del Nord Ovest (20%) e del Nord Est (18%). Anche se la situazione più allarmante si registra nelle metropoli, Milano in testa.
I casi che si trasformano in effettive denunce, però, sono pochi. Ad averla vinta, inoltre, sono quasi sempre le aziende: nella maggior parte dei casi la lavoratrice si limita ad avviare una causa al Tribunale del Lavoro e, senza neppure portarla a termine, stremata da quella che diventa un’autentica guerra psicologica, rassegna le dimissioni. Spesso la denuncia verso i datori di lavoro viene ritirata senza avere neppure raggiunto un adeguato compromesso economico. Le lavoratrici subiscono in silenzio e quindi, esasperate e avvilite, se ne vanno per sempre.
METROPOLI SPIETATE
Le storie sono numerosissime. Attraversano l’Italia in una desolante geografia che da Milano si srotola fino a Palermo. Per far fronte al problemaA.S.La COBAS ha creato sportelli appositi, in modo da dare alle donne i giusti consigli e fornire se necessario assistenza legale e psicologica.
Nel capoluogo lombardo, ad esempio, allo sportello MOBBING, solo negli ultimi tre anni si sono rivolte 1.771 lavoratrici. Nello specifico, secondo i dati ottenuti da l’Espresso, 628 nel 2012, 634 nel 2013 e 509 nel 2014. In particolare, nell’anno appena trascorso, 155 persone hanno chiesto informazioni su congedi parentali (fra cui 33 papà), 194 hanno chiesto aiuto per conciliare maternità e lavoro, 49 hanno aperto un contenzioso per discriminazione dopo la maternità e 14 hanno denunciato mobbing di genere.
Dalle statistiche emerge una cruda realtà: le donne con figli hanno un tasso di occupazione di 14 punti inferiore rispetto a quelle senza figli. Mentre molte di loro (circa il 14%) tendono ad abbandonare il lavoro entro il primo anno di vita del bambino. Confermano dal Centro Donna della Camera del Lavoro: “Si tratta di lavoratrici che arrivano da realtà piccole o piccolissime, dove spesso il sindacato non è presente. Professioniste qualificate, che amano il proprio lavoro, però dopo la maternità vengono emarginate o demansionate per aver osato domandare orari più compatibili con la loro nuova condizione, per aver legittimamente avanzato la richiesta dei permessi per allattamento o, semplicemente, perché durante la loro assenza il loro ruolo è stato affidato a qualcun altro”.
Nella Capitale la situazione non cambia. Qui le lavoratrici che si sono rivolte agli sportelli di A.S.La COBAS l sfiorano quota 1.600 in tre anni. A Torino i casi registrati sono stati 1.150 in tre anni. A Bologna 926, a Cagliari 584. A Palermosi contano 416 casi in tre anni, una decina quelli già segnalati nei primi mesi del 2015 solo agli sportelli sul territorio“L’assenza sul territorio siciliano di strutture dedicate, l’alto costo dei nidi privati, la difficoltà degli orari di ufficio e le malattie del bambino fanno sì che l’aver un figlio, per queste donne, rappresenti un vero e proprio dramma”,
Anche a Napoli il panorama non è roseo. Tanto che per far fronte all’emergenza lo scorso 5 marzo la Cgil ha aperto uno sportello interamente dedicato a queste tematiche che nei prossimi mesi si estenderà anche ad altre province campane, “Perché il mobbing di genere e la discriminazione verso le donne e le madri– spiegano – sono considerati né più né meno una forma di violenza”.
La casistica è variegata. A essere discriminate dopo la nascita di un figlio sono in uguale maniera libere professioniste e lavoratrici dipendenti. Neppure una categoria è immune: fra di loro ci sono avvocati, architetti, segretarie, cameriere, commesse e dirigenti.
I settori più diffusi – confermano dal Centro Donna – riguardano il commercio, i pubblici esercizi, gli studi professionali ma anche settori come le telecomunicazioni e l’editoria. Fra gli ultimi casi esaminati dal sindacato c’è per esempio quello di una commessa, mamma di tre bimbi piccoli, che è stata mandata a lavorare a 40 chilometri da casa con chiusura serale del negozio. O quello di una madre adottiva, alla quale sono stati negati i permessi giornalieri con la motivazione: “Hai avuto quello che desideravi? Cosa pretendi di più?”.
“Molte di loro – spiegano – ci chiedono informazioni sulla conciliazione fra lavoro e famiglia o su richieste per flessibilità di orario di ingresso, riduzione delle domeniche lavorative o avvicinamenti a casa.”
Una prospettiva desolante, questa. Che neppure le numerose direttive europee e gli accordi fra le parti riescono ad attenuare. “La maternità continua a rimanere per le donne italiane un ostacolo al lavoro e alla carriera. Per le aziende, la donna che diventa madre viene vista quasi sempre sistematicamente come un problema”.
SEI MAMMA? LICENZIATI
Un problema che però le aziende tendono a risolvere senza mai sporcarsi troppo le mani. Perché anche il mobbing ha le sue regole. E così non sarà mai il datore di lavoro a prendere l’iniziativa e a licenziare. La legge, infatti, è dalla parte della donna: non si può mandare via una dipendente incinta o appena rientrata dalla maternità. Quindi sarà l’azienda – se l’obiettivo finale è quello – ad aspettare che sia la lavoratrice stessa, psicologicamente provata, a chiedere le dimissioni.
Sono guerre dolorose e logoranti, dove la sofferenza è a senso unico. Come racconta Federica, segretaria milanese di 35 anni tuttora in causa con un grosso studio legale internazionale. “Ho saputo di essere incinta a settembre di due anni fa. Il mio capo se n’è accorto quasi subito, soffrivo di nausee e capogiri. E’ arrivato a dirmi che dovevo recuperare la sera il tempo perso in bagno a vomitare. Così entravo alle 9 di mattina e uscivo alle 9 di sera, quando andava bene”. “Alla fine del secondo mese ho avuto una minaccia di aborto – prosegue – la mia ginecologa mi ha raccomandato di stare immobile a letto. Il mio capo l’ha presa come un affronto personale”. Così, una volta nato il bambino e tornata al lavoro, Federica si è ritrovata in un ambiente ostile, con tutti contro. “Quando sono rientrata in ufficio non ci potevo credere: la mia scrivania era stata letteralmente occupata da un’altra assistente, alla quale erano stati assegnati i miei fascicoli. Mi sono ritrovata a dover eseguire ordini da parte di una ragazza di 23 anni, che mi trattava con sufficienza. Per i colleghi era come se non ci fossi, non mi salutavano neppure. Ogni volta che dovevo mettere piede in quell’ufficio mi sentivo morire. Sono dimagrita otto chili, perdevo i capelli. Dopo sei mesi in quelle condizioni ho deciso che non ce la facevo più, e ho scritto una lettera di dimissioni. Solo che all’ultimo minuto, la sera prima, ho deciso di non inviarla. Non potevo dargliela vinta”.
Ma se qualcuno decide di lottare, la maggior parte delle neo mamme vittime di mobbing preferisce arrendersi, pur di non continuare estenuanti duelli psicologici. Anche perché, dimostrare il mobbing, non è semplice. Conferma l’avvocato Sandra Malerba, specializzata in diritto del lavoro: “L’onere della prova spetta interamente alla lavoratrice. E non è cosa facile, visto che i datori di lavoro sono spesso abbastanza scaltri da non lasciare tracce scritte, come ad esempio e-mail. Tutto si gioca sul piano psicologico. E quasi sempre una delle tecniche più utilizzate per spingere la dipendente ad andarsene è il trasferimento: si chiede a una donna che ha appena avuto un figlio di cambiare città. Tutto perfettamente legale, visto che il contratto lo prevede. Ma lei, che avrà paura di sconvolgere la propria vita e il proprio equilibrio con un bambino appena nato, dirà di no”.
Dimettersi, quindi, è l’errore più comune in cui cadono le lavoratrici. Che, anche quando ottengono una vittoria in Tribunale, tendono a gettare la spugna e a cercare un nuovo impiego. “Non bisogna mai arrendersi, anche se è un percorso molto duro – consiglia il legale – bisogna andare avanti con la causa, dimostrare il mobbing. E quando il giudice dà ragione alla lavoratrice, bisogna tornare al lavoro. Altrimenti avranno comunque vinto loro”.
GRAVIDANZE NASCOSTE
Ma se, appunto, la legge protegge le lavoratrici dipendenti in stato interessante, che con certificato medico possono persino decidere di mettersi in maternità già alla fase iniziale della gravidanza, la stessa tutela non vale per le libere professioniste. Che non hanno l’obbligo dell’astensione obbligatoria dal lavoro e non hanno diritto a indennità in caso di assenze per gravidanza a rischio. E che molto spesso, per non perdere i progetti ai quali stanno lavorando e per non vedersi sostituite nel loro ruolo, tendono a nascondere la pancia fino a quando diventa impossibile. Trascurando se stesse e i figli che portano in grembo. Come racconta Cristina, architetto milanese di 32 anni: “Lavoravo in uno studio da quattro anni, a partita iva. Un ambiente di lavoro molto competitivo, con orari massacranti, dove ho faticato davvero molto a farmi prendere in considerazione vista la mia giovane età, tanto che prima di assegnarmi un progetto internazionale da gestire interamente da sola sono dovuti passare tre anni. Scherzando ma non troppo, il mio capo a noi ragazze lo diceva spesso: vedete di non rimanere incinte”.
La gravidanza è arrivata ugualmente, voluta e cercata. Però Cristina, terrorizzata all’idea di non riuscire a portare a termine quel progetto e di perdere il suo ruolo all’interno dello studio, ha deciso di nasconderla a tutti. “Mi appiattivo il seno con una fascia e fino alla fine del sesto mese ho indossato un corpetto contenitivo per nascondere la pancia che cresceva.” Al settimo mese la sua condizione era ormai evidente. Anche se lei ha tenuto duro, lavorando nove ore al giorno fino a quando è entrata in travaglio prima del termine. I suoi sforzi, però, sono stati vani. Cristina non è riuscita a concludere il suo lavoro. Che, mentre era ancora sul letto d’ospedale reduce da un cesareo d’urgenza, è stato assegnato a una sua collega. Il prezzo più alto, però, è stato pagato da sua figlia: nata prematura con seri problemi respiratori, è stata tenuta per due mesi in terapia intensiva. Una conseguenza forse provocata proprio dalla compressione dell’utero della madre.
Storie che hanno dell’incredibile, che sembrano rubate a un romanzo tragico e anacronistico. Che però nella realtà succedono ogni giorno. Come racconta Monica, traduttrice freelance per un piccolo editore, che ha lavorato fino al giorno stesso del parto. E che, pur essendosi assentata solo per sessanta giorni, quando ha chiesto di poter riprendere la sua attività ha trovato un’amara sorpresa: la pubblicazione che stava traducendo e che le avrebbe permesso di guadagnare una discreta somma era stata ormai assegnata ad un’altra traduttrice “per esigenze aziendali”.