Lunedì 19 dicembre 2016 l’INPS ha pubblicato i dati sull’andamento dei contratti di lavoro a ottobre 2016. Insieme ai dati pubblicati da ISTAT il primo dicembre, che si riferiscono sempre a ottobre, per quest’anno non ci saranno altre importanti pubblicazioni statistiche sull’andamento del mercato del lavoro: per avere altri dati dovremo aspettare il prossimo gennaio. Nel frattempo, quindi, è possibile fare un bilancio su com’è andato il 2016 e, più in generale, su quali sono i risultati ottenuti dal governo Renzi nei tre anni in cui è rimasto in carica.
Gli occupati aumentano
A ottobre 2016 in Italia gli occupati, cioè le persone che hanno un’occupazione sul totale della popolazione attiva, sono 22 milioni 753 mila, in crescita di 174 mila unità dall’ottobre dell’anno scorso. All’inizio del governo Renzi, nel febbraio 2014, erano 22 milioni 180 mila, quindi nei tre anni circa di durata del governo sono cresciuti di 570 mila. A essere aumentato, però, è soltanto il numero degli occupati con più di 35 anni e in particolare gli over 50. Il numero di persone occupate tra i 15 e i 34 anni di età è rimasto stabile a 5 milioni nel corso degli ultimi tre anni.
Sul totale di 22,7 milioni di occupati italiani, poco più di 5 milioni sono lavoratori autonomi (partite IVA, professionisti, consulenti) mentre 17 milioni sono dipendenti. Tra di loro, 14,8 milioni sono lavoratori a tempo indeterminato, mentre 2,4 milioni sono a tempo determinato. Da febbraio 2014 gli occupati a tempo indeterminato sono cresciuti del 3,3 per cento, mentre quelli a tempo determinato sono cresciuti dell’8,5 per cento. Gli occupati a tempo determinato, che semplificando vengono spesso definiti “precari”, sono quindi aumentati più rapidamente di quelli a tempo indeterminato, una tendenza in corso oramai da molti anni e non solo in Italia.
I disoccupati calano
Nello stesso periodo il numero di disoccupati è diminuito: il tasso di disoccupazione a ottobre è stato del 11,6 per cento, in aumento dello 0,1 per cento rispetto all’ottobre del 2015 ma in calo di 1,5 punti rispetto all’inizio del governo Renzi, quando era al 13,1 per cento. La disoccupazione giovanile, in particolare, è ancora al 36,4 per cento, uno dei livelli più alti d’Europa; era al 43 per cento quando Renzi arrivò al governo.
I contratti a tempo indeterminato rallentano
Accanto ai dati ISTAT che abbiamo appena visto, ogni mese l’INPS diffonde i dati sui nuovi contratti e sulle trasformazioni da una tipologia di contratto all’altro (in genere da apprendistato e tempo determinato a tempo indeterminato). Secondo i dati diffusi a ottobre, nel 2016 sono stati registrati 61.640 contratti a tempo indeterminato in più di quanti ne sono cessati. Soltanto il 23 per cento di questi contratti, però, è stato sottoscritto da giovani sotto i 30 anni. Il saldo è positivo, cioè i contratti a tempo indeterminato sono aumentati, ma lo hanno fatto molto più lentamente rispetto al 2015, quando il saldo fu di 588.039. È un saldo inferiore anche al 2014, quando fu di 101.255.
Secondo quasi tutti gli esperti, l’ottimo risultato del 2015 è frutto delle decontribuzioni che quell’anno hanno permesso ai datori di lavoro di assumere dipendenti a tempo indeterminato (soprattutto con il nuovo contratto a tutele crescenti introdotto dal Jobs Act, che per i primi tre anni garantisce meno tutele dal licenziamento) senza dover pagare loro i contributi per tre anni. Una volta cessata la decontribuzione, dal primo gennaio 2016, il numero di contratti a tempo indeterminato si è abbassato molto scendendo addirittura sotto il livello del 2014, quando non solo non c’erano decontribuzioni ma non era in vigore nemmeno il contratto a tutele crescenti previsto dal Jobs Act.
I voucher sono aumentati molto (ma non è chiaro perché)
L’uso dei voucher, i buoni per pagare mini-lavori, è aumentato del 32 per cento nei primi dieci mesi del 2016, rallentando l’incremento che aveva raggiunto il 67 per cento nel 2015. Si tratta di un fenomeno che ha preoccupato anche il governo, che ha promesso interventi se il numero di voucher continuerà a salire anche nei prossimi mesi. A ottobre 2016 sono stati venduti 121,5 milioni di voucher del valore di dieci euro ognuno, per un totale di 1,2 miliardi di euro.
Non è chiaro che cosa abbia causato questa crescita. Secondo alcuni nasconde fenomeni di sfruttamento o ai limiti della legalità, per esempio usare i voucher per pagare straordinari, ore aggiuntive di lavoro o per svolgere occupazioni che non sono saltuarie e occasionali. Secondo il governo, invece, i voucher hanno contribuito all’emersione di numerosi lavori che esistevano già ma prima venivano pagati in nero (e in parte è probabilmente così, come scrivono diversi esperti). Altri sottolineano che si tratta di uno strumento fino a poco tempo fa sconosciuto, tanto ai lavoratori quanto ai datori di lavoro.
I licenziamenti sono in leggero aumento
Ci sono stati 507 mila licenziamenti nel 2016. Sono più di quelli del 2015, quando erano stati 490 mila, e meno di quelli del 2014, quando erano stati 514 mila: e comunque sono cifre non molto distanti tra loro. L’aumento nell’ultimo anno sembra dovuto a un effetto “sostituzione”: le dimissioni volontarie sono diminuite tanto quanto i licenziamenti sono aumentati. Secondo i dati elaborati dall’Osservatorio del mercato del lavoro del Veneto, i licenziamenti sono aumentati soprattutto per gli stranieri che lavorano per conto di imprese straniere: si tratterebbe in gran parte di lavoratori cinesi.
In sintesi
Con gli ultimi dati, sembrano rimanere valide le considerazioni formulate lo scorso luglio dall’OCSE: il mercato del lavoro italiano «sta lentamente migliorando», ma rimarrà sotto i livelli pre-crisi anche nel 2017 e continuerà a essere uno dei peggiori nel mondo sviluppato. Il tasso di occupazione, cioè quante persone lavorano sul totale della popolazione in età lavorativa, è in aumento, ma rimane il terzo più basso di tutta l’area OCSE (dopo soltanto Grecia e Turchia). La disoccupazione, cioè quante persone cercano attivamente lavoro senza trovarlo, resta «molto superiore alla media dell’area euro».
La leggera ripresa del mercato del lavoro è distribuita in maniera diseguale tra le generazioni. I lavoratori più anziani e con più esperienza continuano a essere più ricercati, mentre il numero dei giovani che lavora resta stabile e la disoccupazione giovanile rimane altissima. Il numero di nuovi contratti a tempo indeterminato è continuato a crescere nel 2016, ma molto più lentamente che nel 2015, quando erano in vigore le decontribuzioni, e anche del 2014.
Cosa ha fatto il governo
Il governo Renzi ha realizzato due interventi principali sul mercato del lavoro: il Jobs Act e la decontribuzione. Il primo è una complessa riorganizzazione di numerosi aspetti della disciplina del lavoro. L’intervento più importante è stato l’introduzione del contratto a tutele crescenti, un contratto a tempo indeterminato che per i primi tre anni prevede un ridotto numero di tutele, in particolare dal licenziamento. Trascorso questo periodo iniziale il contratto si trasforma in un contratto a tempo indeterminato, con tutte le tutele previste in precedenza.
Il secondo intervento principale è stata la decontribuzione, rimasta in vigore per tutto il 2015. Questa norma ha permesso ai datori di lavoro di assumere dipendenti senza dover versare loro i contributi per tre anni. I contributi mancanti sono stati coperti dallo Stato che secondo le stime spenderà circa 15 miliardi di euro nel corso dei tre anni in cui i nuovi assunti nel 2015 godranno dell’incentivo.
Cosa dicono gli esperti
Il dibattito sugli interventi del governo e sull’andamento del mercato del lavoro negli ultimi anni è stato molto animato, anche perché i dati sono in parte ambigui e contraddittori. Nell’ultima settimana tre economisti, Emiliano Brancaccio, Nadia Garbellini e Raffaele Giammetti, hanno criticato sul Sole 24 Ore il Jobs Act, sostenendo che l’evidenza scientifica mostra che questo tipo di interventi, che aumentano la flessibilità, non porta a un aumento dei posti di lavoro. Pochi giorni dopo al loro articolo ha risposto Thomas Manfredi, ricercatore dell’OCSE, per sostenere che invece sul medio termine il Jobs Act, nonostante alcuni difetti, porterà comunque a una serie di benefici per i lavoratori.
Sembra esserci più accordo sulle decontribuzioni, definite da molti un rimedio temporaneo che ha “drogato” il mercato del lavoro impegnando moltissime risorse dello Stato, ma senza produrre effetti a lungo termine. Un timore diffuso è che quando le imprese smetteranno di ricevere gli aiuti statali per la decontribuzione (tra il 2017 e il 2018) ci saranno molti licenziamenti, resi possibili dal fatto che con le regole del Jobs Act è piuttosto semplice licenziare un dipendente con contratto a tutele crescenti nei primi tre anni di rapporto lavorativo.
Marta Fana, consulente dell’OCSE e collaboratrice del Manifesto e del Fatto Quotidiano, ha spesso sottolineato l’aumento del precariato e l’esplosione nel numero di voucher che si sono verificati in questi anni. Secondo Fana: «Ridotti gli sgravi sul costo del lavoro [cioè le decontribuzioni, terminate il primo gennaio 2016], le imprese italiane smettono di creare posti di lavoro stabili (e con diritti) per ripiegare sugli strumenti precarizzanti, i voucher appunto, ormai diffusi ampiamente in tutti i settori economici». Secondo Filippo Taddei, responsabile economico del PD, la precarizzazione è in parte un effetto ottico dell’emersione del lavoro nero: a utilizzare strumenti come i voucher, ha scritto in un recente articolo su l’Unità, sono in molti casi persone che hanno un doppio lavoro che, in assenza di voucher, probabilmente continuerebbero a svolgerlo ma in nero.