Con l’adozione di un minimo salariale previsto dalla legge molti stipendi cambierebbero, le buste paga di camerieri, telefonisti, colf, commessi, addetti alle pulizie, corrieri e vigilantes, solo per fare qualche esempio, lieviterebbero considerevolmente. Il lavoro sarebbe meno povero. Le disuguaglianze si ridurrebbero. Appunto: quello che dovrebbe avvenire in una società civile.
Quando nel 1988 fu introdotta la legge che rendeva obbligatorio l’uso delle cinture di sicurezza con annesse sanzioni economiche per gli inadempienti, si alzò un coro di proteste da parte di moltissimi automobilisti: ci fossero stati i social si sarebbero creati gruppi di “No cinture” invasati come ne abbiamo visti in occasione della pandemia. Eppure, il nostro paese è stato uno degli ultimi a introdurre in Europa quella che, è stata accertata, è una norma che può salvare la vita, molto dopo paesi come la Cecoslovacchia, la Danimarca, la Francia, la Spagna, la Germania, il Belgio. Diverse erano le motivazioni che adducevano gli scettici: che avrebbero bloccato la possibilità di uscire dall’abitacolo in caso di esplosione, che se fosse scoppiato un incendio si sarebbe fatta una fine orrenda, che qualcosa che ti costringe impedendoti i movimenti limita qualunque attività di fuga e via discorrendo. La fantasia si scatenava, immaginando tutte le situazioni più impensabili e bizzarre pur di dimostrare la pericolosità di un provvedimento che in realtà cercava proprio di contrastarlo, il pericolo. Se provavi ad opporti e a chiedere perché uno Stato avrebbe dovuto introdurre un obbligo se non ci fosse stato un interesse pubblico evidente, ecco far emergere la ragione economica delle case produttrici, i poteri occulti che sono dietro alle decisioni dei governi, per concludere con la tristemente famosa “la verità non ce la dicono”. E questo nonostante il miglioramento delle cinture di sicurezza che sono state rese via via più efficienti, flessibili e dotate di clic-confort, con la possibilità di regolarne la tensione e sforzi sulla spalla e sul torace e di sganciarla velocemente. Stesso discorso si potrebbe fare in occasione dell’inasprimento delle regole sugli impianti elettrici a norma, in occasione della raccolta differenziata e ogni qualvolta si è provato ad introdurre un provvedimento che avrebbe chiaramente migliorato la condizione e la sicurezza dei cittadini: le argomentazioni contrarie erano talmente ben condotte che sembrava che chi si fosse adeguato sarebbe stato uno sciocco e un incapace. La nostra intelligenza, quando vuole contrastare una misura o una decisione che influisce sulla vita quotidiana e che implica un cambiamento, è in grado di partorire narrazioni all’apparenza inoppugnabili.
L’unico modo per uscire dalla rete tossica di ragioni irragionevoli è chiedersi la ratio della richiesta, la sua finalità, il motivo reale per cui si vuole introdurre, guardando l’intero dall’alto, oltre i dettagli, all’interesse che vuole tutelare. Prioritario, cioè, è non perdere di vista il vero motivo che, quando riguarda un bene collettivo, dovrebbe essere incontestabile, benché siamo consapevoli che tutto sia criticabile, anzi che sia manipolabile, soprattutto quando si detiene il potere di orientare la vita politica di una società. La questione importante di questi giorni, concretizzata nell’attivazione di una raccolta firme, riguarda il salario minimo, una misura importante, apparentemente impossibile da rigettare con le armi della ragione, per non parlare della coscienza sociale, e che sembra obbedire al più elementare dei sillogismi la cui formula potrebbe essere: la retribuzione deve consentire di vivere degnamente, un salario al di sotto di una certa soglia non lo permette, il salario va aumentato. Nell’Unione Europea ventidue Stati su ventisette hanno leggi sul salario minimo, mentre gli altri paesi, tra cui il nostro, demanda la questione alla contrattazione collettiva dei vari settori. Stiamo assistendo, in questi giorni, a svariati tentativi di respingere una misura che non renderebbe di certo ricchi i lavoratori ma costringerebbe imprenditori e datori di lavoro ad adeguare le retribuzioni a un minimo accettabile. Si sostiene, ad esempio, che una soglia minima farebbe abbassare stipendi e salari. Come se una soglia sotto la quale non scendere obbligasse a non andare sopra quella stessa soglia. Ora un simile ragionamento risulta comprensibile solo se ci si pone non dalla parte dei lavoratori, ma da quella delle imprese che continuano, per poter avere massimo margine di manovra economica, a sostenere un libero mercato con scarse limitazioni esterne al mercato stesso.
In Italia i salari, che tra il 1990 e il 2020 sono calati quasi del 3% invece che aumentare, hanno registrato una leggera ripresa solo tra il gennaio 2022 e il gennaio 2023, una crescita simile a quella degli altri Paesi Ue dove c’è solo la contrattazione collettiva. Negli Stati Ue dove c’è il salario minimo, invece, gli aumenti dello stipendio di base sono stati ovunque più alti: in Francia la crescita in un anno è stata del 6,6%, in Spagna dell’8%, in Germania addirittura del 22%. (Fonte Eurofound).
Ovviamente, molti stipendi cambierebbero, le buste paga di camerieri, telefonisti, colf, commessi, addetti alle pulizie, corrieri e vigilantes, solo per fare qualche esempio, lieviterebbero considerevolmente. Il lavoro sarebbe meno povero. Le disuguaglianze si ridurrebbero. Appunto: quello che dovrebbe avvenire in una società civile.
Rimane palese che se in un contratto collettivo il minimo orario è di 10 euro, rimarrà tale; invece, laddove un contratto preveda una retribuzione di 6 euro questa verrebbe aumentata fino a quanto richiesto. La contrattazione collettiva sarebbe salva, perciò, ma vincolata anch’essa a non scendere al di sotto di una soglia minima.
In tal senso, la proposta formalizzata delle forze di opposizione, Pd, Movimento 5 Stelle, Avs Azione e + Europa, con eccezione di Italia Viva, mira a prevedere un trattamento economico minimo orario (TEM) di 9 euro l’ora e un Trattamento economico complessivo adeguato ai contratti collettivi stipulati dai sindacati più rappresentativi. Le disposizioni dovrebbero entrare in vigore il 15 novembre 2024, entro il termine previsto per il recepimento della direttiva UE sul salario minimo.
L’intento è anche combattere e cancellare i falsi contratti o i contratti pirata, quelli, cioè, stipulati da soggetti con scarsa forza rappresentativa e che determinano fenomeni negativi come il sottosalario e divari per le diverse categorie di occupati, nonché la palese violazione di diritti fondamentali.
Il pericolo di distorsioni, però, sempre presente in provvedimenti umani e denunciato da forze affini al mondo imprenditoriale e dal governo Meloni nonché da sindacati minori, non dovrebbe negare pregiudizialmente la possibilità di adeguamento delle retribuzioni giustificando il veto ad aumentarle: nel caso in cui si dovessero configurare effetti collaterali ben al di là dei risultati sperati, che sono sempre quelli di consentire condizioni di lavoro più dignitose, si potranno correggere, salvando però il principio etico e di tutela collettiva che ne è alla base.
“Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”: la nostra Costituzione, ancora una volta, ci aiuta a capire dov’è il giusto e a muoverci in quella direzione.