La crisi del sistema produttivo, la conseguente necessità di razionalizzazione delle risorse ai fini di una maggiore produttività, come pure la globalizzazione dei mercati con la ricerca di sempre maggiore competitività aziendale, hanno fatto sorgere nei datori di lavoro una maggiore necessità di controllo delle fasi produttive e degli stessi lavoratori dipendenti attraverso l’installazione e l’utilizzo di sistemi audiovisivi.
E’ noto, tuttavia, che tale esigenza ha dovuto fare i conti con il divieto espresso contenuto già nello Statuto dei Lavoratori (Legge n. 300 del 1970), precisamente all’articolo 4, comma 2, che recita: «Gli impianti e le apparecchiature di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, possono essere installati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna. In difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l’Ispettorato del lavoro, dettando, ove occorra, le modalità per l’uso di tali impianti».
Anche la normativa sulla privacy (D.Lgs. 306/2003) contiene un richiamo al citato articolo 4 dello Statuto dei Lavorarori.
Ciò nonostante i datori di lavoro (pochi) hanno fatto ricorso ai sistemi di videosorveglianza trincerandosi dietro «motivi di sicurezza», finendo con l’inquadrare determinate aree della struttura per poter prevenire furti, violazioni e intrusioni.
Tali motivazioni non certo accettate dai lavoratori e dipendenti e le conseguenti azioni rivolte alla tutela della loro Privacy hanno reso questo tema un tema controverso e delicato. Sono in molti i lavoratori che si irrigidiscono non appena sentono parlare di telecamere o di videosorveglianza: il timore è quello di essere monitorati per tutta la durata dell’orario lavorativo e di vivere con l’ansia di essere spiati. Nella realtà dei fatti questi impianti consentono a moltissime alle aziende di tutelarsi e di migliorare la sicurezza nel luogo di lavoro (si pensi a oreficerie, ricevitorie, tabaccherie, etc.).
Un tema controverso che, periodicamente, vede coinvolte aziende di diversi settori le quali, non conoscendo o aggirando la normativa vigente tralasciano eventuali questioni di privacy e controllano i propri dipendenti e/o clienti con sistemi di videosorveglianza. Non poteva mancare, quindi, l’intervento della giurisprudenza a fare chiarezza sulle contrapposte esigenze.
Ed infatti sul tema è intervenuta di recente la Corte di Cassazione, III Sezione Penale, con la sentenza del 30 gennaio 2014, n. 4331 (udienza del 12.11.2013).
La Suprema Corte, partendo dalla premessa della normativa vigente e cioè dell’articolo 4, comma 2, menzionato dello Statuto dei Lavoratori, ha affermato che: «La norma, tuttora vigente pur non trovando più (cfr. Corte di Cassazione, Sezione III, 24 settembre 2009 n. 40199) sanzione nell’articolo 38, comma 1, sempre dello Statuto dei Lavoratori dopo la soppressione del riferimento all’articolo 4 nel suddetto articolo 38, comma 1, operata dall’articolo 179 D.Lgs. 196/2003, prevede una condotta criminosa rappresentata dalla installazione di impianti audiovisivi idonei a ledere la riservatezza dei lavoratori, qualora non vi sia stato consenso sindacale (o autorizzazione scritta di tutti i lavoratori interessati:Corte di Cassazione, Sezione III, 17 aprile 2012 n. 22611. In pratica la Suprema Corte aveva ammesso la legittimità di un imprenditore a installare le telecamere nei locali della propria azienda, ribadendo tuttavia la necessità di ottenere il consenso informato sottoscritto all’unanimità dai dipendenti che risultano impiegati nella stessa azienda. Un consenso che, aggiungevano i giudici, può ben legittimare l’assenza del preventivo accordo con le rappresentanze sindacali, o l’autorizzazione della Direzione Territoriale del Lavoro che è territorialmente competente.) o permesso dall’Ispettorato del lavoro».
Pertanto, la corte di Cassazione, con la sentenza 4331/2014 ha voluto precisare che:
- L’installazione di una telecamera diretta verso il luogo di lavoro dei propri dipendenti o su spazi dove essi hanno accesso anche sporadicamente deve essere previamente autorizzata dall’Ispettorato dal Lavoro o deve essere autorizzata da un particolare accordo con i sindacati. La mancanza di questi permessi, comporta la responsabilità penale del datore di lavoro.
- Le telecamere possono quindi essere montate e installate solo dopo la ricezione dell’autorizzazione: la presenza dell’impianto di videosorveglianza, per quanto spento, necessita di previa approvazione. Questo rigido sistema nasce per tutelare la riservatezza dei lavoratori e per evitarne la violazione della privacy.
Poiché però, secondo il ricorrente della citata vicenda, non è sufficiente l’installazione dell’impianto, occorrendo anche una «successiva verifica della sua idoneità» la Corte di Cassazione ha avuto modo di precisare anche che: «poiché l’impianto è stato eseguito in conformità al progetto allegato alla richiesta di autorizzazione in seguito approvato, è palese che il reato non sussiste perché le modalità delle riprese visive, peraltro effettuate soltanto dopo ottenuta l’autorizzazione della D.P.L., non sono tali da ledere la privacy dei lavoratori». E che: «Che l’idoneità degli impianti a ledere il bene giuridico protetto, cioè il diritto alla riservatezza dei lavoratori, sia necessaria affinché il reato sussista emerge ictu oculi dalla lettura del testo normativo, idoneità che peraltro è sufficiente anche se l’impianto non è messo in funzione, poiché, configurandosi come un reato di pericolo, la norma sanziona a priori l’installazione, prescindendo dal suo utilizzo o meno».
Da quanto innanzi detto consegue che un titolare/datore di lavoro per installare un sistema di videosorveglianza nel totale rispetto della privacy dei propri lavoratori e senza rischiare di incorrere in accuse e sanzioni deve:
1. Informare i lavoratori interessati fornendo un informativa ai lavoratori;
2. Nominare un responsabile alla gestione dei dati registrati;
3. Posizionare le telecamere nelle zone a rischio evitando di riprendere in maniera unidirezionale i lavoratori;
4. Affiggere dei cartelli visibili che informino i dipendenti ed eventuali clienti; ospiti o visitatori della presenza dell’impianto di sicurezza;
5. Conservare le immagini per un tempo massimo di 24-48 ore.
Nel caso in cui le videocamere riprendano uno o più dipendenti mentre lavorano è possibile installare impianti audiovisivi, previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali o in mancanza con la DPL (Direzione Provinciale del Lavoro) e ottenere l’autorizzazione all’installazione dei dispositivi elettronici di controllo a distanza.
Le telecamere in questo caso possono essere installate con spie luminose, solo in angoli dell’azienda potenzialmente a rischio rapina o di attività criminali, pur tenendo conto della privacy delle persone.
Pertanto, la ripresa dell’attività lavorativa a distanza dei lavoratori, deve essere occasionale ed esclusivamente finalizzata alla sicurezza aziendale e dello stesso dipendente e la sua visione consentita solo in presenza di eventuali violazioni, furti, atti di vandalismo ecc. opportunamente e preventivamente denunciate all’autorità giudiziaria.
Non rispettare le procedure previste dal Codice in materia di protezione dei dati personali, installare i sistemi con fini non leciti e trattare i dati dei propri dipendenti in modo da violarne l’integrità e la privacy è rischioso e le sanzioni previste possono essere particolarmente salate. Ad essere lesa da un eventuale caso di violazione della privacy sarebbe inoltre anche la reputazione aziendale.
In ogni caso, le videocamere non possono essere installare con lo scopo di monitorare o controllare i lavoratori, ma il loro utilizzo deve essere giustificato ai fini della tutela dei beni aziendali o per la protezione del personale.
Non sono mancati sul tema gli interventi del Garante della privacy. Basti qui ricordare, tra i più recenti, il provvedimento [doc. web n. 3325380] che ha respinto la richiesta di una società di attivare un sistema di videosorveglianza che avrebbe violato la legittima aspettativa di intimità e la dignità dei lavoratori. Merita menzione anche il provvedimento Impianto di videosorveglianza installato presso un supermercato e tutela dei diritti dei lavoratori – [doc. web n. 2683203].
In questo contesto si è inserito anche il Governo. Infatti l’11 giugno ed il 04 settembre scorso è stato approvato uno dei decreti attuativi del Jobs Act che prevede, tra le altre cose, la «revisione della disciplina dei controlli a distanza del lavoratore», con un intervento sull’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori per adeguare la disciplina all’evoluzione tecnologica, nel rispetto delle disposizioni in materia di privacy.
La modifica voluta dal Governo, in buona sostanza, non cambia le cose e non aumenta e non diminuisce le possibilità di controllo del datore di lavoro, che comunque restano subordinati alla legge sulla privacy. Ma fa un’altra cosa: dice alla aziende che per tracciare l’operato e la disciplina dei propri lavoratori via computer, cellulari o sistemi di conteggio degli accessi (non di videosorveglianza, per cui valgono ancora le vecchie regole) non è più necessario, da oggi, passare per un accordo sindacale o per un autorizzazione ministeriale. Basta l’accordo con il singolo lavoratore.