Si mantiene la reintegrazione nel posto di lavoro per i licenziamenti discriminatori, nulli ed intimati in forma orale. In realtà queste garanzie erano previste ancor prima del varo dell’art 18 dello Statuto dei Lavoratori (Legge 300 del 20/05/1970), dalla Legge 604/1966, nonché da codice civile, costituzione e varie convenzioni internazionali. Vogliamo proprio vedere quali saranno quei datori di lavoro che licenzieranno i propri dipendenti per motivazioni politiche, sindacali, sessuali, religiose, oppure esclusivamente con la fatidica comunicazione orale: “sei licenziato” !
Il reintegro nel posto di lavoro è consentito, per i licenziamenti disciplinari, esclusivamente nel caso in cui “sia dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento” (art. 3 Dlgs Jobs Act). In tutti gli altri casi c’è solo il risarcimento monetario, questo sì crescente in rapporto all’anzianità lavorativa.
Tra l’altro l’obbrobrio giuridico consiste nel riconoscere che il licenziamento è illegittimo, che non c’è assolutamente proporzione tra l’infrazione eventualmente commessa e la conseguente rottura del rapporto di lavoro, insomma che è stata compiuta una palese ingiustizia nei confronti del lavoratore o della lavoratrice in questione, ma che nel contempo a questa ingiustizia non si può porre rimedio.
Renzi è stato molto esplicito nel perseguire il suo obiettivo: impedire ogni discrezionalità da parte del giudice.Quindi al diritto del lavoro -nato negli anni ’70 per riequilibrare a livello giudiziario i rapporti di forza tra lavoratori e padroni, troppo squilibrati a favore di quest’ultimi viene messa la museruola, i giudici devono fare a meno del “libero convincimento”, devono solo seguire lo stretto rigore della controriforma.
Ricapitolando: niente reintegro per i licenziamenti disciplinari (se non quando è appurata l’insussistenza del fatto materiale contestato (onere che tocca al lavoratore), niente reintegro per i licenziamenti economici sia individauali che “collettivi”.Quest’ultima è la vera novità che Renzi ha tirato fuori all’ultimo minuto (cfr. le ultime due righe dell’art. 10) sbalordendo gli stessi padroni che non si aspettavano tanta magnificenza! Una straordinaria e zelante furia antioperaia, decisamente incostituzionale – come del resto gran parte del Jobs act che abusa in trattamenti discriminatori e diversificati – poichè indebolisce-sottrae potestà e contesto al ruolo sindacale tutelato dall’art. 39 della Costituzione.
Mentre con la monetizzazione crescente che caratterizza il decreto del Jobs Act, scopriamo che i padroni, pur cacciando qualche euro, ci guadagnno doppiamente. Sia dal punto di vista del controllo totale sulla forza lavoro che possono spremere a proprio piacimento, gettandola via senza ormai alcuna remora quando non la ritengono più utile ;sia per quel che concerne la vil pecunia, in quanto i risarcimenti da versare per i neoassunti/futuri licenziati sono globalmente inferiori ai finanziamenti ricevuti dal governo con il taglio dell’Irap e la decontribuzione triennale per i neoassunti.
Per i licenziamenti economici (individuali e collettivi) e disciplinari (tranne in caso di insussistenza materiale del fatto) riconosciuti illegittimi, i risarcimenti sono pari a 2 mensilità per ogni anno di anzianità aziendale, da un minimo di 4 ad un massimo di 24 mensilità; considerando un lavoratore con uno stipendio lordo annuo di 25.000 euro, per il licenziamento dopo un anno dall’assunzione il datore di lavoro versa un indennizzo (4 mensilità) di 7.692 euro più un ticket licenziamento di 490 euro per un totale di 8.182 euro, ma intanto lo stato gli ha elargito 7.823 euro di sgravi contributivi e 1.278 euro di taglio Irap per un totale di 9.153 euro, con un risparmio totale di 971 euro.
Le piccole e medie imprese (fino ai 15 dipendenti) versano un indennizzo risarcitorio, a seconda dell’anzianità, da 1 a 6 mensilità : in precedenza era da due e mezzo a sei mensilità.
Per i licenziamenti viziati da errori formali il risarcimento è pari ad una mensilità per ogni anno di anzianità aziendale, da un minimo di 2 ad un massimo di 12 : in precedenza l’indennizzo era compreso tra sei e dodici mensilità.
Cambia anche la conciliazione. Prima era obbligatoria ed era precedente il licenziamento, si svolgeva esclusivamente presso la Dtl (Direzione territoriale del lavoro), serviva anche a cercare un accordo tra le parti e talora riusciva ad evitare il licenziamento. Ora diviene facoltativa, si può svolgere in varie sedi (Dtl, sedi sindacali, enti bilaterali,…), si realizza quando il licenziamento è ormai partito e serve a trovare un accordo, fuori dall’ambito giudiziario, sull’eventuale indennizzo nella misura di una mensilità per ogni anno di anzianità aziendale, da un minimo di 2 a un massimo di 18 mensilità, le somme pagate dal datore di lavoro sono esenti da tasse e contributi.
C’è infine (art. 11) il “contratto di ricollocazione”, per cui sono previsti 18 milioni di euro (+ altri 32) per il 2015 e 20 milioni per il 2016 di finanziamenti pubblici. Il lavoratore licenziato illegittimamente ha diritto di ricevere un voucher dal Centro per l’impiego territorialmente competente, che può presentare ad un’agenzia per il lavoro (pubblica o privata), con la quale può sottoscrivere un contratto di ricollocazione consistente nell’aiuto alla ricerca di una nuova occupazione, nella possibilità di frequentare corsi di formazione professionale; Occorre la massima disponibilità del lavoratore a cooperare con l’agenzia, egli non può rifiutare di frequentare i corsi e le offerte di lavoro adeguate (non meglio specificate) pena la perdita del voucher e la rescissione dello stesso contratto di ricollocazione.
L’altra questione che ha sollevato un’alzata di scudi pressochè generalizzata è quella relativa al campo di applicazione ovvero se il “decreto comprendesse anche i dipendenti pubblici” : alla fine, in governo Renzi sotto attacco svicola, chiarendo che se ne riparlerà a febbraio nella discussione parlamentare sulla proposta di “riforma” della Pubblica Amministrazione, pur esplicitando di “essere favorevole al licenziamento dei dipendenti pubblici fannulloni”.
Quanto al decreto sul ” riordino degli ammortizzatori sociali”, Il tentativo “ambizioso” e dichiarato è quello di limitare l’accesso e i costi della cassintegrazione, consentiti solo dopo aver esperito tutte le possibilità di riduzione del personale, e renderlo impossibile in caso di cessazione definitiva dell’attività aziendale o di un ramo di essa.
Nasce la NASpI (Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego), che entrerà in vigore dal 1° maggio 2015 : consiste in un’indennità garantita a chi rimane involontariamente senza lavoro e ha accreditate nei quattro anni precedenti almeno 13 settimane di contribuzione e deve aver lavorato almeno 18 giorni nell’anno che precede la disoccupazione.
La NASpI è rapportata nella misura del 75% alla retribuzione imponibile ai fini previdenziali degli ultimi quattro anni se l’importo mensile di questa non supera i 1.195 euro lordi; se l’importo è superiore, al 75% di 1.195 euro si aggiunge il 25% della differenza tra 1.195 e la retribuzione effettiva, in ogni caso non può superare i 1.300 euro lordi. Ma dall’inizio del quinto mese di fruizione diminuisce del 3% e dal 1° gennaio del 2017 la durata della prestazione si riduce fino ad un massimo di 78 settimane, cioè 18 mesi.
L’erogazione della NASpI è subordinata alla regolare partecipazione alle politiche attive proposte dai servizi per l’impiego. corsi di formazione e disponibilità ad offerta di lavoro, pena la decadenza della NASpi.
Per gli sfigati, una volta esaurita la NASpI, arriva l’AsDi (Assegno di Disoccupazione) per un massimo di 6 mesi e in misura pari al 75% dell’ultimo trattamento percepito ai fini della NASpI, purchè non superiore all’entità dell’assegno sociale:come sopra, l’erogazione di tale elemosina è subordinata all’adesione alle iniziative personalizzate predisposte dai servizi per l’impiego. l
Infine Renzi non si dimentica dei” Co.co.co. e dei lavoratori a progetto”.Per loro scatta dal 1° gennaio 2015 la Dis-Coll, che sostituisce la vecchia una tantum prevista a favore dei Collaboratori con un reddito annuo non superiore a 20.220 euro(2013), che abbiano accreditati nell’anno precedente almeno 3 mesi di contributi. I criteri e gli importi sono uguali a quelli della NASpI, anche se la durata massima è fortemente accorciata, non più di 6 mesi e la platea dei beneficiari è decisamente ristretta causa le compatibilità finanziarie, non più di 75/80.000 rispetto ai 296.000 in possesso dei requisiti per usufruire del sussidio.
La particolarità della Dis-Coll sta proprio nella sua entrata in vigore immediata, che ancora una volta contraddice le promesse di Renzi, che aveva dichiarato urbi et orbi la necessità di “abolire del tutto le tipologie di lavoro Co.Co.Co. e progetto” e di ridurre al massimo le 46 tipologie di contratti di lavoro precari e a tempo determinato.
IN CONCLUSIONE c’è poco da emendare , quando con il Jobs act siamo di fronte alla controriforma del diritto del lavoro e al welfare dei miserabili. Dalla subalternità a cui è stata costretta la classe lavoratrice in tutte le sue sfaccettature – a vendersi per lavori precari,saltuari,malpagati e senza diritti – se ne esce solo lottando unitariamente per la ” riduzione della giornata lavorativa( lavorare meno,lavorare tutti) e per il lavoro-reddito garantiti”.
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