Alla vita adulta, si dice, ci si arriva soprattutto grazie al lavoro. E’ da un impiego, dalla capacità di autofinanziarsi, dalla possibilità di esprimersi, che si deve passare. Ma questa porta, già stretta da tempo, si è fatta più stretta. Il lavoro si è fatto sempre più instabile, incerto e insicuro. E troppi giovani, quel passaggio temono di non riuscire a varcarlo. O a passarci con troppi stenti. Cresce così tra le nuove generazioni la paura di trovarsi costretti a restare in una specie di limbo che non ha più nulla dell’adolescenza e ha ancora troppo poco della vita adulta. Con il rischio che anche il sistema Italia, che utilizza molto poco queste risorse, non riesca più a recuperare dinamismo e sviluppo.
Quando ai giovani si chiede qual è il rischio che ritengono che saranno costretti a dovere affrontare in futuro, parlano sempre di lavoro. Quasi esclusivamente di lavoro.
Il 24,9 % dei giovani mette al primo posto il rischio del lavoro precario . Altrettanto sentito il timore di rimanere disoccupati, di non avere il necessario per vivere e di non riuscire a fare un lavoro adeguato al titolo di studio. Solo il 7 per cento ritiene di non correre alcun rischio.
Di fronte a questa situazione alcuni non si arrendono e reagiscono .
Molti però da soli non riescono a reagire. Molti si trovano a dovere affrontare in solitudine le transizioni dalla scuola al lavoro e dal lavoro al lavoro. Assistiamo a una problematica di relazioni che non aiutano al momento delle scelti importanti”.
Le paure prendono forme differenti a seconda del titolo di studio che ciascuno è riuscito a conseguire. Confermando anche il fatto che i giovani non sono un universo uniforme ma un complesso insieme di cui si devono conoscere i diversi contorni per poter individuare il modo migliore per aiutare ciascuno di loro.
A temere di rimanere senza un lavoro sono soprattutto quelli che hanno una qualifica professionale o che la scuola dell’obbligo non sono riusciti a terminarla mentre i laureati guardano con preoccupazione maggiore al rischio di ritrovarsi per troppo tempo a dovere fare i conti con un lavoro precario
Quanto alla tipologia del rapporto di lavoro, secondo l’indagine della Gioc, sono i laureati e i liceali i più coinvolti dal fenomeno dei contratti a termine, siano essi a progetto, occasionali o interinali
Mentre chi ha la qualifica professionale per lo più ha un contratto da dipendente a tempo indeterminato. Ma tra questi ultimi uno su cinque lavora senza avere un contratto. A pagare sono soprattutto i giovani che non hanno il sostegno della famiglie, visto che a loro il sistema del welfare offre molto poco.
Nonostante tutto, se gli si chiede in base a cosa dovrebbe venire stabilita la propria retribuzione, i giovani si aspettano di essere valorizzati per quello che sono e quindi pensano che una persona dovrebbe essere retribuita in base al merito. D’altro canto si aspettano anche un sistema di welfare amico, sono convinti che è questa la vera medicina per combattere la precarietà. Sono le politiche sociali che dovrebbero aiutare i giovani a transitare da una condizione all’altra.
Ma quali conseguenze ci possono essere in un contesto in cui i giovani si trovano davanti a un lavoro che sfugge, a uno scarso sostegno da parte del sistema pubblico e che quasi sempre finiscono per dovere ricorrere all’aiuto dei genitori? L’Italia deve trovare subito una risposta al fenomeno se non vogliamo dire addio ai sogni di sviluppo e dinamismo economico.
A questo si aggiunga che giovani rischiano di essere vittime di una specie di ‘ricatto affettivo.’ “Il forte legame tra genitori e figli e la carenza di politiche sociali creano uno stato di dipendenza dei giovani dalla famiglia di origine che è sia di tipo economico ma è anche di tipo psicologico. I giovani venti-trentenni sanno di dipendere fortemente dai genitori
Grazie a loro trovano lavoro, grazie a loro si laureano e comperano casa. Senza contare che molti, una volta usciti, di fronte alle difficoltà rientrano nella famiglia di origine. In qualche modo i giovani finiscono per sentirsi in debito perché sanno che quello che stanno costruendo dipende in gran parte dalla famiglia d’origine. Negli altri paesi europei i ragazzi e le ragazze riescono a farcela da soli. Da noi, purtroppo, è così.”
Forse è anche per questo che i giovani italiani non riescono ancora a trovare il modo per dare voce, così come è successo ai loro colleghi francesi, ai loro disagi e alle loro paure e a fare valere davvero le proprie ragioni.