Nell’antichità greca e romana, il lavoro materiale è sempre stato considerato una prerogativa degli schiavi o, comunque, delle classi subalterne. Gli uomini liberi non svolgevano alcuna attività lavorativa, ma dedicavano tutto il tempo alla cura del proprio corpo e dello spirito. Cultura, arte, filosofia, politica e guerra erano le attività proprie degli uomini liberi. Con la guerra si procacciavano le risorse necessarie al mantenimento della collettività, razziando schiavi e generi alimentari accumulati da altri popoli.
La cura del proprio campo, anche se per trarne il sostentamento per vivere, non era considerato un lavoro penoso, ma al contrario un modo di vivere più piacevole di quello del guerriero. E in ogni caso, il lavoro nei campi era un esercizio utile per prepararsi alla prossima guerra. C’è da considerare che le città greche erano in perenne guerra tra di loro, e che anche Roma organizzava ogni anno campagne militari di conquista o di difesa contro i popoli vicini.
Al massimo, un libero cittadino organizzava la cura dei propri affari, anche se il commercio, così come le attività industriali, erano più adatte ai liberti – ovvero gli schiavi liberati – che agli uomini liberi per nascita.
I romani, che pure hanno elaborato buona parte delle figure giuridiche che ancora oggi noi adottiamo, non conoscevano né il diritto al lavoro né il diritto del lavoro. D’altra parte, per i romani, il lavoro era una pena e tale sua natura cozzava irrimediabilmente con il concetto di diritto. Avevano però chiarissima la distinzione tra lavoro per la necessità (operae) e lavoro come libera espressione delle capacità dell’uomo (opus).
Nel lavoro per la necessità, non c’era alcuna partecipazione umana nell’esecuzione di un’attività lavorativa. Era l’attività propria degli schiavi che, infatti, non erano considerati esseri umani, dato che avevano perduto la libertà. E ciò che caratterizza gli esseri umani e li distingue dagli animali è proprio la libertà. Con la perdita della libertà, gli uomini perdevano anche l’anima e con essa tutti i diritti.
Insomma, lo schiavo era considerato un mero erogatore di energie, fisiche ed intellettuali, prive però delle caratteristiche proprie dell’uomo, dato che provenivano da una fonte priva di libertà, e quindi prive di qualunque dimensione etica. Gli schiavi non avevano alcuna possibilità di scelta. La loro dimensione, era quella di essere di proprietà di qualcuno che poteva disporre a piacimento delle loro energie e del loro corpo.
Nell’altro caso, al contrario, l’esercizio dell’attività era una scelta dell’uomo che, liberamente, impiegava le sue energie nella maniera più consona alla propria natura. La possibilità di scelta, insomma funge da discriminante tra ciò che è etico e ciò che non lo è, tra ciò che appartiene alla natura umana e ciò che invece le è opposto. E gli uomini dell’antichità avevano questa possibilità di scelta, ad esempio tra il coltivare il proprio campo o farlo coltivare ai propri schiavi.
La stessa attività assumeva, quindi, una connotazione del tutto diversa se era svolta da un uomo libero. Questa non è una contraddizione, dato che per i nostri progenitori ciò che realizzava l’attività era lo spirito e non il corpo dell’uomo. Le attività più consone ad un essere umano erano, per gli antichi, quelle dirette alla cura dell’anima. Per questa ragione, la contemplazione era l’esperienza più ambita e l’ozio contemplativo, che corrisponde all’orientale meditazione, la massima virtù.
Anche per il cristianesimo il lavoro era considerato una maledizione necessaria per potersi mantenere in vita, ma non un’attività degna di uomini liberi e consapevoli. D’altra parte per la logica del cristianesimo non ha senso cumulare beni in terra, quando la vera ricchezza è nelle attività dello spirito. La schiavitù fu abolita formalmente con l’affermazione del cristianesimo, ma essa continuò a vivere sotto diverse forme di servaggio fino al secolo scorso.
Il lavoro, comunque, non era più riservato agli schiavi, che formalmente non esistevano più, ma era appunto la condanna che l’umanità doveva sopportare per la cacciata dal paradiso terrestre. Se nell’antichità la povertà o la condizione di schiavo erano la pena per le colpe commesse in vite precedenti, durante il cristianesimo, la povertà diviene una sorta di condizione di privilegio, dato che la vita di sofferenze che veniva condotta dai poveri era una sorta di espiazione che costituiva un viatico per il Paradiso.
Questa logica mutò radicalmente durante la riforma protestante, soprattutto per opera dei calvinisti, anche se lo spirito della riforma di Calvino prese, mano a mano, l’intero movimento e alla fine anche la Chiesa di Roma si piegò alle esigenze della nuova ideologia della schiavitù.
Il lavoro diviene non più una pena, ma la possibilità concessa all’uomo per riscattare la propria maledizione. Nel lavoro l’intera umanità può scontare il peccato originario e prepararsi per la vita dell’aldilà. Nel lavoro non c’è peccato, anzi la fatica del lavoro diviene l’opportunità per riscattare la pena inflitta agli uomini per aver voluto accedere alla conoscenza. Nel fatalismo calvinista, l’amaro calice della fatica deve essere bevuto fino in fondo con gioia, dato che, solo alla fine di una vita di lavoro, l’uomo conoscerà il destino cui è predestinato.
Nasce così l’etica del lavoro, sulla quale viene costruita una nuova estetica del potere. Il potere nell’antichità era rappresentato dal dominio diretto di un uomo su in gruppo di uomini che nasceva dalla forza. Era il potere sul corpo degli uomini, dato che la loro anima era considerata inesistente. Gli schiavi, infatti, così come le donne erano considerati esseri privi di anima. La libertà stava sulla punta della spada, così come poi si posò sulla canna dei fucili, non nell’anima o nella natura degli umani.
Il nuovo potere domina invece proprio le anime e deve quindi fondare il proprio dominio su un’etica.
Il processo di asservimento passa attraverso la speranza della salvazione e questa è legata al lavoro. La burocrazia, strumento secolare di gestione di un potere esercitato in genere con la forza delle armi, adotta, a questo punto, nuove forme psicologiche di coercizione. Questo potere si traduceva in forme materiali di coercizione, solo per mezzo di un atto formale quale la legge, o la sentenza di un giudice pronunziata in nome di una legge. Che poi quella legge o quel giudice fossero del tutto arbitrari era irrilevante: la loro legittimazione discendeva, in genere, dalla volontà del sovrano.
Il grande processo di accumulazione del capitale che avvenne nel diciassettesimo secolo e di industrializzazione che cominciò nel secolo successivo ebbero un presupposto materiale ed uno psicologico. L’oro e l’argento tratti dalle miniere americane, ne costituirono la fonte materiale, la nuova etica protestante del lavoro la base psicologica. I metalli preziosi giunsero in quantità enormi in Spagna e Portogallo che possedevano quei territori, ma lì non si sviluppò alcun processo poiché il cattolicesimo impedì, in una prima fase, che si formasse un’etica del lavoro. Per i calvinisti olandesi e tedeschi, e per i pragmatici inglesi, il lavoro era invece una gioia, in quanto schiudeva la possibilità della salvezza, e l’accumulazione di denaro per l’investimento – al fine di creare lavoro – diventava lo strumento per assicurarsi un posto in prima fila sulla via della salvazione.
Abbiamo detto che questo mutamento nella considerazione del lavoro induce una profonda trasformazione dell’estetica del potere. Questo, infatti, non può più apparire come mera coercizione di un uomo su un altro uomo, ma deve avvolgersi degli abiti di una falsa solidarietà poiché, apparentemente, lo scopo dell’accumulazione e del lavoro è comune ai dominanti e ai dominati. Per entrambi, infatti, l’obiettivo è quello di raggiungere la salvazione attraverso le proprie opere, e così la fabbrica diviene il luogo deputato ad assicurare la salvezza delle anime. Il potere, insomma, compie quell’operazione di occultamento della vera natura schiavistica del lavoro per la necessità.
lavorare per vivere è un’attività da schiavi e non da uomini liberi
Esaltando il lavoro in sé, nasconde agli occhi di tutti il fatto che dover lavorare per vivere è un’attività da schiavi e non da uomini liberi. Che è quella la fonte dell’alienazione dell’uomo moderno.
Il potere edifica il tempio dell’homo faber, nel quale tutti i valori vengono sacrificati al dio della produzione. Un dio onnipotente, dato che ha il potere di produrre gli stessi uomini. E’ il lavoro che dà l’essere, è il prodotto del lavoro che dà un senso all’esistenza. La sua Bibbia è fatta di sole tre parole: lavora, consuma e crepa. La dicotomia tra avere (i beni della produzione) ed essere (la ricerca di se stessi), si perde fino a confondersi nell’identità di avere ed essere. L’essere confuso con l’avere comporta, quindi, che si è solo se si ha.
Il potere, quindi, che prima era un puro strumento di coercizione esercitato da un uomo, adesso appare esercitato in nome della collettività. Esso ha cambiato faccia ma non sostanza, dato che, comunque, continua a svolgere la sua funzione di strumento per la prevaricazione di un gruppo di uomini su un altro gruppo di uomini, ovvero di una classe su un’altra classe.
L’etica del lavoro svolge, pertanto, una funzione essenziale per la stessa esistenza del potere. E’ per il mantenimento del potere, quindi, che il lavoro continua ancora oggi ad essere presentato come una necessità ineluttabile, una maledizione eternamente sulle spalle degli uomini. Ciò che rimane immutabile è proprio l’essenza del potere, ovvero la prevaricazione di un uomo su un altro uomo. Che questo venga esercitato in nome di un re o di un imperatore, per uno scopo individuale, o collettivo, o trascendentale, non ha alcuna importanza.
Le rivoluzioni della fine del ’700, rovesciarono un ordine già morto da tempo, ma i rivoluzionari non compresero che il nemico da abbattere era il potere in sé, e non quello del re di Francia o quello della Corona Britannica.
S’illusero di poter sostituire un potere collettivo ad un potere individuale, di poter dare delle regole per la gestione del potere e che questo fosse sufficiente per raggiungere l’equità sociale. Si impantanarono nel perseguimento del potere “buono” contro quello “cattivo”, i borghesi contro i monarchici, i proletari contro i borghesi, i militari contro tutti.
Solo nella Comune di Parigi, e molto più chiaramente nel 1968, compare con forza l’esigenza di liberarsi del potere. Appare finalmente che “il re è nudo” e che una società libera manda “la fantasia al potere“.
D’altra parte quei primi rivoluzionari non potevano accorgersene: il potere era vissuto come un eterno necessario, così come la maledizione del lavoro era perpetua ed insuperabile. Eliminare il potere era come togliere l’aria che si respira: senza è impossibile vivere. Nemmeno il movimento anarchico riuscì a comprendere questo concetto fino in fondo. Gli attentati ai principi regnanti, colpivano non il potere in sé, maquel potere particolare. Era illusorio pensare di abbattere il potere colpendone i simboli. Si rischiava di diventare, come in effetti avvenne, strumenti per la lotta di potere interna alle classi dominanti.
In ogni caso l’etica del lavoro divenne dominante, dapprima in tutto il mondo occidentale, poi, dopo l’ultima guerra mondiale in tutto il mondo industrializzato.
Si completa, così, quel rovesciamento ideologico per cui l’ozio, che per i latini era la massima virtù, soprattutto nella forma dell’ozio contemplativo, diviene nel mondo moderno il più esecrabile dei vizi.
Per l’etica del lavoro, ovviamente, chi non lavora volontariamente è un diverso o un pazzo che deve essere emarginato dalla società civile. Mentre, al contrario, chi non trova lavoro non per propria colpa, ma a causa di crisi economiche generali o di settore deve esser aiutato dalla collettività a superare il momento di difficoltà.
Nascono così le forme di assistenzialismo moderno ai senza lavoro, tutte fondate sul presupposto psicologico che il lavoro manchi non per volontà propria del soggetto ma per circostanze oggettive e indipendenti. La Costituzione della Repubblica Italiana, comincia proclamando solennemente nell’art. 1 che “l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro“, espressione che scaturisce direttamente dal fondamento stesso dell’etica del lavoro. Tutti i vincoli e le limitazioni posti nella Costituzione e nelle leggi fondamentali dello Stato alle attività umane, hanno come obiettivo la tutela e lo sviluppo del lavoro. In altri termini, l’uomo è visto come un animale da fatica, la cui esistenza ha il solo scopo di produrre il più possibile in funzione delle proprie capacità. Tutto il resto, l’amore, la bellezza, il pensiero, la cultura, l’interiorità, la fantasia, la gioia di vivere, la spiritualità, tutte le qualità e le modalità che rendono l’uomo realmente umano, derivano la propria esistenza dall’etica del lavoro. Anche la cultura ha come fine essenziale la produzione, e non l’arricchimento della persona umana.
L’etica del lavoro distrugge i valori umani, poiché essa stessa è portatrice di un disvalore assoluto.
Generando l’uomo, la produzione genera tutti i suoi valori, ma questo è assurdo. Un valore infatti, è tale solo se è un assoluto, e quindi non è generabile. L’etica del lavoro, quindi, dapprima depotenzia tutti i valori, assoggettandoli alla logica della produzione, poi li distrugge. L’uomo-per-la-produzione, che essa presuppone, non è più un essere umano, ma una sorta di mulo tecnologico, cui sono stati trapiantati alcuni geni delle scimmie (solo per la loro capacità manuale, non certo per il senso dell’umorismo che possiedono i nostri lontani cugini).
L’uomo-per-la-produzione che non produce è un controsenso. Quando questo accade in modo irrimediabile, la vita stessa perde significato e non è più degna di essere vissuta. Quanta gente nel mondo si uccide o cade in una spirale irreversibile di depressione per aver perduto il lavoro, e con esso la speranza. Quanti pensionati, quanti disoccupati, quanti cassintegrati, quanti giovani decidono di farla finita con la vita perché non riescono a trovare una collocazione nel mondo del lavoro?
La cronaca, ci racconta ogni giorno le tristi storie di coloro che hanno perduto la speranza di vivere perché emarginati dal mondo del lavoro. E’ questa la folle conseguenza dell’etica del lavoro: la speranza di vita s’identifica con il lavoro, cessa di essere un valore in sé per legarsi irreversibilmente all’attività dell’homo faber. Viene un brivido se pensiamo che il motto scolpito all’entrata del campo di Auschwitz diceva “Arbeit macht frei“, ovvero “Il lavoro rende liberi“, e l’epigrafe non aveva certo un senso ironico.