Nel 1930 scriveva Keynes che in quegli anni, alla nozione secondo cui «se si paga meglio una persona la si rende più efficiente», si andava sostituendo la massima più moderna «per cui se si paga meglio una persona si rende il suo datore di lavoro più efficiente, forzandolo a scartare metodi ed impianti obsoleti … elevando così lo standard generale» (“The question of high wages”, The Political Quarterly, 1930).
Viene da chiedersi: quanto è attuale questa riflessione? Se guardiamo alle trasformazioni in negativo della nostro sistema produttivo la risposta è: molto. Difatti, alla politica di moderazione salariale, all’introduzione del doppio livello di contrattazione e alla crescente flessibilità del lavoro la risposta delle imprese è stata il disimpegno negli investimenti reali e nella ricerca, con ricadute drammatica su produttività e salari. E dunque? Crediamo sia una opinione condivisa che il costo del lavoro non costituisce solo, se molto elevato, un fattore di perdita di competitività ma anche, se basso, un minore incentivo al dinamismo delle imprese. Così, crediamo che l’attuale deriva del sistema produttivo italiano offra una base statistica concreta a questo punto di vista. Insomma, per l’Italia emerge un quadro macroeconomico coerente con le considerazioni keynesiane secondo cui un basso costo del lavoro può avere l’effetto di disincentivare «le energie latenti dell’imprenditore grazie alle quali è possibile finanziare l’aumento salariale». Perciò, dobbiamo trovare il modo di fuoriuscire dalla trappola della flessibilità che sostituendo il lavoro di bassa qualità al capitale e alla tecnologia, ed erodendo la produttività, mantiene l’occupazione, e le imprese, in uno stato di sopravvivenza. Questa considerazione è rivolta anche alla più recente riforma del mercato del lavoro, attualmente in gestazione. Vanno creati nuovi posti di lavoro. Ma, non è deregolamentando ulteriormente il lavoro che si crea occupazione buona e stabile. C’è bisogno di un nuovo modello di sviluppo sostenibile fondato sulla centralità della conoscenza e della ricerca, che crei occupazione di qualità in un contesto di investimenti e salari crescenti. Non ci sono altre vie praticabili per una occupazione buona e stabile. La trappola della flessibilità, difatti, crea solo posti di lavoro transitori che erodono la produttività. Li consuma, e poi li espelle, seppellendo, insieme ai posti di lavoro, le stesse imprese sempre meno capaci di competere lungo la scala della competitività internazionale.