Una provocazione inaccettabile va senz’altro respinta. Non sempre, però, la solenne riaffermazione dei principi messi in discussione basta a disinnescare la carica eversiva di certe asserzioni, specialmente quando queste possono mascherare un pensiero più strisciante e forse assai diffuso.
È il caso di una frase pronunciata pubblicamente da alcuni esponenti del Governo Meloni, secondo cui “robe come la 81/2088 sono un lusso che non possiamo permetterci”. Un’affermazione il cui scalpore non è stato mitigato neppure da una opportuna puntualizzazione successivamente intervenuta.
È facile rilevare come simili affermazioni siano socialmente inaccettabili sol che si pensi, da un lato, al numero di infortuni sul lavoro anche mortali che, nonostante una certa tendenza alla diminuzione, resta complessivamente altissimo (nel primo semestre del 2023 gli infortuni sul lavoro sono stati 397.980, 490 dei quali mortali) e, dall’altro lato, al triste fenomeno delle malattie professionali, troppo spesso dimenticato ma non meno drammatico sia per le sue dimensioni quantitative (29.704 casi denunciati all’INAIL nel solo 2022) sia per i suoi complessi effetti sociali.
Sono inoltre affermazioni costituzionalmente insostenibili, giacché, oltre che come interesse della collettività, la salute costituisce un fondamentale diritto degli individui e, quindi, anche dei lavoratori, siano o meno cittadini (art. 32 Cost.), così come la sicurezza e la dignità umana (anche dei lavoratori) costituiscono limiti all’esercizio della libertà costituzionalmente tutelata di iniziativa economica privata (art. 41, c. 2).
È allo stesso modo da notare come tali dichiarazioni non tengano conto che la disciplina italiana della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro costituisce il doveroso adempimento di uno Stato membro alle numerose direttive europee in materia succedutesi fin dal 1989 e trascurino, ma non è un dettaglio solo formale, che la disciplina italiana in materia non è più contenuta nel d.lgs. 626/1994, bensì nel d.lgs. 81/2008, approvato dall’ultimo governo di centrosinistra ma al quale ha concorso anche l’attuale governo di centrodestra con le integrazioni e modifiche del d.lgs. 106/2009!
È altrettanto agevole riscontrare come in simili affermazioni ci sia anche e soprattutto dell’altro, vale a dire l’insofferenza per regole che, ponendo eccessivi vincoli alle imprese, ne ridurrebbero la capacità produttiva e concorrenziale. Un problema, quindi, apparentemente serio che inciderebbe in negativo sulla stessa capacità di fare impresa. Ma c’è allora da chiedersi a quale modello di impresa si stia pensando.
Intanto è del tutto da dimostrare che un ambiente di lavoro insicuro sia economicamente più conveniente di uno sicuro: non si debbono infatti trascurare i rilevanti costi, aziendali e sociali, privati e pubblici, connessi agli infortuni e alle tecnopatie. Così come è del tutto da dimostrare che un ambiente di lavoro insicuro sia più produttivo di uno sicuro: a meno di non intendere la “produttività” non già come la capacità dell’azienda di produrre e di essere competitiva sul mercato in termini di efficienza e qualità, bensì come un bieco sfruttamento del lavoro, con pochi diritti e meno tutele, finalizzato a realizzare solo una brutale riduzione dei costi di produzione.
Occorre invece ribadire che le regole europee e nazionali che tutelano la salute e la sicurezza dei lavoratori si ispirano al modello dell’impresa socialmente responsabile, nella quale al centro dell’organizzazione del lavoro c’è la persona del lavoratore, la cui tutela psicofisica non può essere compromessa da alcun imperativo economico. In questo modello è l’organizzazione del lavoro che deve adattarsi all’uomo e non viceversa.
In quest’ottica le regole contenute nella recente legislazione italiana non solo non rappresentano un lusso insostenibile, ma anzi costituiscono un prezioso supporto per la diffusione di un’impresa moderna, europea, socialmente responsabile e attenta al più importante dei patrimoni che ha a disposizione: quello delle persone! Ne costituisce prova, fra l’altro, la particolare attenzione che il d.lgs. 81/2008 presta all’incentivazione dei modelli di organizzazione e di gestione della sicurezza, i quali possono significativamente aiutare il management aziendale nell’assolvimento dei propri compiti di prevenzione e di protezione dai rischi connessi alle attività lavorative.
Quelle regole non si limitano peraltro solo a questo. Infatti, da un lato, confermando l’equazione “lavoro irregolare-lavoro insicuro”, apprestano strumenti volti a contrastare la drammatica piaga del lavoro sommerso, la cui insicurezza (specialmente in settori come l’edilizia o l’agricoltura) è purtroppo sotto gli occhi di tutti. Da un altro lato, si misurano anche con un altro rischio di più recente generazione, in via di rapida diffusione e spesso anche più insidioso di quelli conosciuti. Si tratta del rischio insito nei sempre più numerosi contratti di lavoro flessibili e che deriva dalla scarsa esperienza e contestualizzazione del lavoratore nell’organizzazione produttiva o dalla sua non adeguata formazione. Un rischio, quindi, da valutare specificamente adottando le opportune misure per eliminarlo o per ridurlo, nella consapevolezza che, nel caso di lavoratori non standard come quelli a termine o interinali, la disciplina della salute e sicurezza non postula la semplice estensione delle tutele previste per i lavoratori standard, ma un differenziale di tutela ad hoc capace di compensare i deficit di cui si è parlato.
Nella moderna organizzazione produttiva, la questione della sicurezza nei luoghi di lavoro si intreccia quindi pericolosamente con quella della sicurezza del posto di lavoro. Sicurezza sul lavoro e sicurezza del lavoro costituiscono due terreni che tendono a sovrapporsi e su cui si sta giocando una delle sfide più delicate del moderno riformismo italiano ed europeo.
A ben guardare, in una prospettiva autenticamente riformista – che, in piena coerenza con i principi costituzionali ed europei, tende ad esaltare la funzione sociale dell’impresa – le regole che tutelano il lavoro e la sua sicurezza non possono mai essere considerate un lusso, bensì una risorsa importante per affermare finalmente la cultura del lavoro inteso come strumento di dignità della persona, di emancipazione sociale e di cittadinanza.
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