I dati forniti dall’Istat sulla disoccupazione italiana non stupiscono chi da tempo segue l’andamento dell’economia e del calo dell’occupazione, ma sono certamente drammatici.
In sostanza il nostro autorevole istituto ufficiale afferma che – forse – vi è qualche segnale di ripresa economica, ma per adesso è solo un fatto statistico che non incide sulla disoccupazione. Tanto che a febbraio il tasso dei senzalavoro segna un nuovo record: il 13%, mai così alto dal 1977. Oltre 3,3 milioni di persone sono in cerca di lavoro: +8 mila su mese e +272 mila su base annua. La componente giovanile è sempre altissima, ovvero è la più penalizzata dalla crisi economica e dalle politiche sbagliate attuate in Italia e in Europa. Tocca il 42,3% in lievissima diminuzione su gennaio, ma con un +3,6% su base annua. Il che traducendo dai numeri alle persone in carne, ossa e cervello significa 678mila i ragazzi tra i 15 e i 24 anni in cerca di lavoro, con scarsissime probabilità di trovarlo, e nessuna in modo stabile, visto l’ultimo decreto Poletti.
Confrontandoci con altri paesi europei l’Italia risulta essere all’avanguardia nel triste primato dell’incremento della disoccupazione nell’arco di un anno: +13% a febbraio (inferiore solo a Cipro e Grecia). Il tasso di occupazione a febbraio è al 55,2%, lontanissimo dagli obiettivi fissati a Lisbona: si torna indietro di 14 anni e in media si perdono mille occupati al giorno.
Il dato della ripresa è del tutto improbabile e comunque da verificare nei prossimi mesi. Quello che già sappiamo è che se ci sarà, si tratterà certamente, stando le attuali politiche economiche e del lavoro, una ripresa senza occupazione (jobless recovery come dicono gli anglosassoni).
Renzi ammette che i dati sono “sconvolgenti”, ma ne trae la conseguenza che bisognerebbe affrettare le sue misure, dal decreto Poletti al più articolato Jobs act, che in realtà non migliorerebbero la situazione ma la peggiorerebbero con l’eternalizzazione della precarietà, perpetuando di 36 mesi in 36 mesi i contratti a termine senza obbligo di casuale e togliendo persino al rapporto di lavoro di artigianato l’obbligo di formulare un programma scritto di formazione, permettendo quindi di aggirare tranquillamente l’obbligo formativo.
Queste misure sono molto piaciute nella Ue. Si capisce il perché: la bufala della “austerità espansiva” cominciava a fare il suo tempo, visto che i processi economici andavano ovviamente in senso contrario. Quindi bisognava inventarsi qualche cosa d’altro da parte delle élite che comandano in Europa. Ecco quindi la nuova trovata: la “precarietà espansiva”- secondo la puntuale definizione di alcuni economisti critici, come Emiliano Brancaccio – secondo cui basterebbe abbattere ogni regola sul mercato del lavoro e sulla tutela dei diritti dei lavoratori per sviluppare l’economia reale.
Quanto alla questione dell’elevato costo del lavoro ci viene in soccorso, per fare finalmente chiarezza, un’indagine di Eurostat di qualche giorno fa, che smentisce il luogo comune secondo cui in Italia il peso di retribuzioni, oneri sociali e tasse sia il più alto in Europa. Un’ora lavorata da noi costa 28,1 euro contro i 28,4 dell’Eurozona, cioè dell’Europa a 17. Superano l’Italia nel costo dell’ora lavorata la Svezia (40 euro),la Danimarca (38,4), la Francia (34,3), la Germania (31,3) e persino l’Irlanda (29 euro) nonché altri paesi che si collocano tra quelli citati. Il peso del cuneo fiscale a carico del datore di lavoro in percentuale rispetto al salario in Italia (28,1%) supera di poco la media dell’Eurozona (25,9%).
Ci pare quindi che si possa dire che la liberalizzazione dei rapporti di lavoro in atto da tempo e giunta al suo atto finale con il decreto Poletti (contro il quale l’Associazione nazionale giuristi democratici ha avanzato una denuncia alla Commissione europea per violazione delle stesse norme della Ue in materia di lavoro) non aumenta l’occupazione ma solo la precarietà e che insistere sul tema del costo del lavoro ci porta fuori strada. Ci vuole quindi una inversione di rotta rispetto alle attuali politiche, basata sullo sviluppo di un intervento pubblico in settori innovativi e ad alta intensità di lavoro, unita a un salario minimo orario e a forme di reddito di cittadinanza, nonché all’estensione dei diritti dei lavoratori.